sabato 22 giugno 2013

Giuseppe Uncini. Galleria Cardi Pietrasanta






Durata della mostra: 1 giugno – 1 luglio 2013
Giuseppe Uncini (Fabriano 1929 – Trevi 2008) ha scelto il cemento come espressione del suo 
linguaggio artistico. Per oltre cinquant’anni, combinando ferro e cemento, ha costruito forme, 
oggetti, che vivono di vita propria. Che si collocano nello spazio con assoluta autonomia e grande 
forza espressiva. Invitato con una sala personale alla Biennale di Venezia del 1996, le sue opere 
sono esposte nei principali musei italiani e internazionali e sono entrate nelle più importanti 
collezioni pubbliche e private.

Prima di essere folgorato sulla via del cemento, Uncini lavorava con le terre. Ogni genere di terre, 
dalla sabbia al fango delle pozzanghere. Le raccoglieva per strada, le preparava e le stendeva su 
tavole di masonite e poi magari un po’ di catrame e un po' di carbone, tanto per dare un tocco di 
colore. Qualche volta usava anche la cenere che produceva in abbondanza la vecchia stufa a 
legna dello studio. “Volevo fare il pittore e la mia intenzione era fare dei quadri. Ma non

funzionava. Li sentivo falsi. Erano solo la rappresentazione effmera di una idea”, raccontava. Lui 
voleva fare qualcosa di "vero, di concreto". Costruire oggetti che vivessero di vita propria, Che 
occupassero da soli tutta la scena, senza bisogno di effetti speciali o di mediazioni interpretative.






Con questo pensiero fsso, un giorno, quasi per caso, entrando in una rivendita di materiali edilizi 
ebbe la folgorazione: usare il cemento. “All'inizio tendevo a usarlo come adoperavo le terre. Ma 
continuavo ad essere insoddisfatto". Poi la grande intuizione, improvvisa, irrefrenabile: "usare il 
cemento eliminando il supporto del quadro per costruire un oggetto autoportante, 
autosignifcante". E così Giuseppe Uncini ha imboccato la via del cemento scoprendo,

sperimentando man mano, da bravo carpentiere in erba, le tecniche per armarlo con il ferro e per 
iniziare a progettare e costruire i suoi lavori. Questo accadeva verso la metà degli anni 50: era il 
periodo in cui, allo stanco dibattito tra i fautori del realismo e quelli dell'astrazione, Burri e Fontana 
contrapponevano le alternative della materia e dello spazio. 
Uncini ha un debole per Burri, ma resta della sua idea. Nel lavoro del grande artista umbro non lo 
convince lo scarto tra materia e forma, tra processo e risultato. Non corrisponde alla sua ricerca.

"Quando cominciai a usare il ferro e il cemento la scelta di queste materie non fu determinata da 
interessi espressionistici o materici, ma solo come mezzo per realizzare un'idea". E l'idea era 
sempre quella, un'idea fssa, quasi un’ossessione: voleva costruire, strutturare.

Primocementarmato del 1958-59 rappresenta il passaggio defnitivo di Uncini verso la forma dove 
processo e esito coincidono: una struttura di cemento grezzo rinforzato da rete e ferri, dove però 
è ancora presente una memoria di pittura alla base. Memoria che col tempo è andata 
praticamente scomparendo, quasi rifutata dal cemento, come un corpo estraneo. "Finalmente 
costruivo l'oggetto e, lasciando a nudo tutti i procedimenti tecnici del suo farsi, riuscivo a porre il

primo punto fermo nell'iter del mio lavoro. Cioè non ottenevo più un 'quadro rappresentante' ma 
un 'oggetto autosignifcante': insomma realizzavo l’idea che il modo tecnico fosse il concetto e il 
concetto il modo tecnico". Fino al 1961, quando tiene la prima personale alla Galleria L'Attico, 
Uncini approfondisce la ricerca sui Cementarmati. In un articolo del 1998 Adachiara Zevi descrive 
così quel periodo dell'artista: "E una straordinaria stagione creativa: nelle opere, tutte 
rigorosamente con lo stesso titolo, l'esito coincide con il suo processo, lasciando la materia 
scabrosa e corrugata, mentre i ferri si contorcono e piegano, s’inflzano liberamente nel cemento 
per fuoriuscirvi ancora più sofferenti. La costruzione non è frutto di progetto ma di processo.
 Già



nei Cementarmati del '62, però, l'artista intraprende una strada diversa, che privilegerà nel 
percorso successivo: in essa il progetto vince sul processo. Se infatti i ferri si raddrizzano e 
dispongono non più a caso ma a formare tralicci, il cemento si riduce e si leviga; gli esiti sono 
certamente lucidi e rigorosi ma a essi manca il fermento e la vibrazione della materia. Dal '67 alla 
fine degli anni Settanta l'attenzione si sposta sul tema dell'ombra, sul problema di come dare 
consistenza al vuoto: preso un oggetto, porta, fnestra o sedia, Uncini lo riproduce fedelmente 
con un proflo di ferro che prolunga nello spazio per circoscriverne l’ombra. Inizialmente un limite posto al vuoto.








Quell’ombra tenderà poi a solidifcarsi, a diventare essa stessa il soggetto. In 
alcune opere del 1969, Uncini allarga la cerchia dei materiali costruttivi, includendo il mattone con 
cui erige muri, archi, cloache, appesi al muro o liberi nello spazio, naturalmente con l’ombra. In 
questo alternarsi tra parete e spazio, tra bidimensionalità e volume, nel '79 è la volta della parete, 
su cui appende Dimore. Opere bidimensionali dove i rimandi sono le voci dell’architettura: gli

archi, le lesene, le paraste sempre con la loro ombra portata si esplicitano come luogo della 
memoria dirà G. M. Accame in un saggio del 1990, ove “la concreta precisione della fattura non 
inganna, anzi, accentua la sua vera condizione, che è quella di essere il segno di un confne”.

Quando nell'82 sottrae alcune porzioni di cemento per sostituirle con tralicci di ferro, Uncini 
annuncia una nuova uscita nello spazio. Gli spazi di ferro combinano quinte di cemento con 
intrecci fttissimi di ferro che determinano lo spazio che intercorre tra un solido e l’altro, vere e 
proprie costruzioni che alternano il pieno alla trasparenza. Nel 1993, tornato alla parete, Uncini

inaugura una felice stagione creativa. Come nei Cementarmato del '59, negli Spazicemento la 
materia assurge a protagonista; pur non scabrosa come allora, reca tuttavia le tracce del 
processo di lavorazione. Se però i Cementarmato erano 'oggetti autosignifcanti', le forme di 
cemento, ritagliate in foggia irregolare, giocano oggi illusionisticamente contro il piano di fondo, la 
parete stessa incorniciata in modo aperto e dinamico da tondini e ferro".

Il dialogo tra progetto e gesto, tra pittura e struttura di Giuseppe Uncini, iniziato alla fne degli anni
’50, si è sviluppato per oltre mezzo secolo con un’evoluzione artistica sorprendente da cui è nato 
un percorso artistico di inconfondibile autonomia. E quel piccolo grande uomo che si fermava a

guardare i ponti delle autostrade per riprogettarli mentalmente e farli diventare opere d'arte, "se 
non lo sono già", ha continuato fno alla fne a pensarla come allora: "la mia preoccupazione 
quotidiana – ripeteva spesso - è quella di fare, di costruire, di pensare mentre costruisco e 
viceversa. Mi è sempre interessata la disciplina storica del costruttivismo, però la mia attenzione è 
diretta ai gesti primari dell’uomo, a tutti quei congegni base che costituiscono l'embrione della 
costruzione. Mi interessa il desiderio dell’uomo di costruirsi la propria dimora, l'azione del 
contadino nello squadrare il campo per la coltura. Tutte azioni che vengono dirette da leggi ben 
precise, frutto di un pensiero e di un calcolo che determinano anche una estetica".

Giuliano Papalini

In Vinile, di Sergio Pardini



The Fantastic Vanilla Fudge (doppio LP –Atlantic)


I Vanilla Fudge nacquero nel 1966 a New York. Ne erano componenti: Tim Bogert-(basso), Carmine Appice-(batteria), Mark Stein-(tastiere) e Vince Martell (vero nome Vincenzo Martemucci)-(chitarra). Per un breve periodo si fanno chiamare Pigeons su suggerimento di un’amica, dicono le biografie, poi scelgono il nome definitivo, Vanilla Fudge, ispirato ai coni di gelato aromatizzati alla vaniglia
All’inizio Mark Stein, Vince Martell e Tim Bogert suonavano un abbastanza semplice soul col nome appunto di Pigeons, poi con l’ingresso nel gruppo del vigoroso batterista Carmine Appice e l’approdo alla Atco, sotto la tutela del produttore Shadow Morton le cose cambiano. Il gruppo non ha però alcun talento per la composizione (mancanza non da poco e che li danneggerà in fretta) ma un indubitabile ridondante virtuosismo interpretativo non manca di certo. Nasce così l’ album d’esordio tutto di cover.
Grandi ammiratori dei Beatles, eseguirono in modo del tutto personale cover di Ticket to Ride ed Eleanor Rigby ma il grande successo arrivò con una versione dura e psichedelica di You Keep Me Hangin' On, brano portato al successo dalle Supremes.
Un'altra cover che li ha consegnati alla storia della musica moderna è quella di Some velvet morning, un brano morbido originariamente composto da Lee Hazlewood, ed eseguito dall'autore in duetto con Nancy Sinatra, i Vanilla ne danno un'interpretazione personalissima, decisamente psichedelica e portata alla ricerca di sonorità estremamente stridenti con l'originale e che ne fanno un sorta di manifesto della psichedelia. Di quel periodo è anche una originalissima interpretazione di Bang Bang , conosciuta in Italia per la traduzione eseguita dell’Equipe 84.
I Vanilla Fudge esordirono nel 1967 con un album omonimo composto esclusivamente,come ho detto, da cover di pezzi di ogni genere (dall’easy listening al soul, dal beat al rock and roll, dai Beatles a Curtis Mayfield) e ne proposero una versione eccentrica, acida, un po’ presuntuosa, forse anche un po’ kitsch ma molto affascinante e senza dubbio molto originale. Il primo disco dei Vanilla Fudge è uno di quegli album che, come tutte le opere molto particolari ed eccessive (nel bene e nel male), o lo si ama o lo si disprezza del tutto.


Parlare dei Vanilla da l’impressione di parlare di artisti mai compresi completamente e mai rivalutati come accade per moltissimi gruppi della storia del rock. Molto amati in Italia, al pari dei gruppi più famosi di allora, ma stranamente meno conosciuti nel resto del mondo. Succede infatti, che molti ex ragazzi italiani degli anni '60 riconoscano al volo le particolari sonorità della formazione americana, ma sono praticamente sconosciuti tra gli ascoltatori più giovani.
Questo gruppo è tanto originale quanto affascinante. Il suono dei quattro ragazzi di New York è infatti quanto di più strambo potesse capitare all’epoca, cioè come accennato verso la fine degli anni 60. Un suono caratteristico, un efficace e bizzarro miscuglio di psichedelia, inizi progressivi, intrecci hard rock e imbeccate sinfoniche. Il risultato all’orecchio dell’ascoltatore è immediato, evidente, riconoscibile, un marchio di fabbrica, un simbolo, come poche altre band della storia del rock. Non era pura psichedelia la loro, non si trattava nemmeno di rock - anche se di lì a poco sarebbero comparse sulla scena formazioni come i Deep Purple che si ispiravano ai suoni più duri suonati dal gruppo – e non era nemmeno progressive, dato che sarebbe poi germogliato in Europa qualche anno dopo, ma il loro era un suono senz'altro personalissimo.
L’ambizione era tanta, anche se a volte i risultati erano un po’ ambigui, ma forse è proprio qui il bello del gruppo. Il sound è sicuramente pregevole: dalle inflessioni indiane, alle progressioni delle tastiere, alla batteria assordante di Appice. Sono fascini opposti che apparentemente non sono compatibili, ma il gruppo è sempre così esagerato nel forzare gli schemi conficcando tutto dentro il pezzo eseguito, che alla fine esplode un arcobaleno sonoro , un misto dei primi Deep Purple ,degli gli Uriah Heep, o addirittura timbri che ricordano i Black Sabbath.
The Fantastic Vanilla Fudge è un album doppio, con poster all'interno . Questa doppia compilation LP è stata pubblicata solo in Italia, per celebrare la loro vittoria al Festival di Venezia 69 dove furono la prima rock band premiata con il prestigioso premio Gondola d'oro.
Tra i pezzi inclusi nei due LP cito:The beat goes on, You keep me hanging on, Bang Bang, Some velvet morning e Fur Elise and moonlight sonata di Beethoven!










Librazioni, di Diego Bertelli. Giugno



La regola finora taciuta delle mie Librazioni è la seguente: parlare solo di libri usciti dopo il 2010. Ma le regole, si sa, sono fatte per… Ecco allora che succede quel che succede: l’oggetto della mail è «regalino» e quando Marco Simonelli esordisce così ci si può aspettare di tutto. Bisogna aprire con cautela e credo che sia stata la miglior cosa nel caso di quel messaggio. È il primo giugno, sono le 7 del mattino e per chi conosce Simonelli non solo come poeta sa anche che non si è svegliato presto per scrivermi: «qui trovi una scansione che ho fatto oggi di un libro bellissimo, forse lui l'hai conosciuto o incrociato a Yale... Secondo me è potentissimo e mi piacerebbe tradurre qualche poesia […]. Ma in generale, è una lettura che ti consiglio fortemente. Peccato lui sia morto in circostanze tremende...».
Non dice altro quel night owl di Simonelli, perciò il resto lo faccio da solo. Scarico, «unzippo» e apro in preview Shells di Craig Arnold (Yale Series of Younger Poets, 1999). Io, Arnolds, non l’ho incrociato. Lo Yale Younger Poets Award lo vince nel 1998, ma il Bachelor risale a nove anni prima. Vado a vedermi anche se trovo qualche info su di lui, una foto, ho bisogno di visualizzarlo. Eccolo in alto a destra su Google: rasato, anzi, no, calvo, volto ovale, mi dà l’idea che fosse alto, chissà se ho ragione… A sinistra, più in basso, sbuca fuori una pagina wiki. Leggo i basic facts: Arnolds insegnava poesia all’Università del Wyoming, aveva preso il Bachelor a Yale nel 1989 (wiki dice 1990, ma si sa…), poi il Ph.D. in creative writing all’Università dello Utah concluso nel 2001. Dice che è scomparso nel 2009 in Giappone, durante un’escursione sull’isola vulcanica di Kuchinoerabu. Io in quell’anno svolgevo ricerca in Germania, per cui non ne ho sentito parlare a Yale, anche se di certo lo avranno ricordato.
Dopo Wiki intravedo la pagina di Poetry Foundation, editore della splendida Poetry Magazine, che per me resterà sempre legata a Emanuel Carnevali. Di queste info mi fido: pare che la morte sia dipesa da una caduta dall’alto di una scogliera, sebbene Arnolds fosse sull’isola per il vulcano; pare che la sua presenza lì avesse a che fare col libro a cui stava lavorando. Mi viene in mente che c’è qualcosa di classico in lui: da una parte, in quella ricerca, un che di virgiliano; dall’altra, di pliniano. Di certo c’è solo che il suo corpo non è mai stato ritrovato. In ogni caso, la prima raccolta di versi si intitola Shells e penso che per lui un’isola vulcanica sia stato il luogo perfetto dove riposare.
È mentre penso quello che penso che non valuto di far subito quello che sto per fare, ma lo faccio. Sebbene non ci sia ne nessun motivo per collegare Arnolds a Carnevali, lo faccio. È come in quei giochi per bambini dove dovresti inserire le forme nella sagoma giusta; qui però sembra proprio di voler infilare un quadrato in un cerchio: si sentono raschiare gli spigoli È vero: entrambi hanno campato quasi gli stessi anni, quarantadue, il primo, quarantacinque, il secondo; Arnolds è andato a Yale, mentre Carnevali ha lavorato come cameriere allo Yale Club di New York più di mezzo secolo prima; Arnold è stato in Italia (grazie al Joseph Brodsky Rome Prize Fellowship from the American Academy of Arts and Letters), Carnevali ha vissuto in America (seppure in condizioni di assoluta precarietà); in tempi molto diversi, entrambi hanno pubblicato le loro poesie su Poetry Magazine, la rivista fondata da Henriette Monroe, di cui Carnevali sarebbe diventato per un breve periodo vicedirettore.


Eppure quello che li accomuna non sono queste rassomiglianze vaghe, ma qualcosa di più profondo: il loro amore per il viaggio e per la natura. Non so se siete d’accordo, ma ne Il Primo Dio, una volta lette, non si riescono a scordare le pagine in cui Carnevali racconta dei mesi vissuti in uno shack sul lago Michigan: i bagni al mattino, il nutrimento quasi esclusivo di avena; il suo è un incontro esaltante con l’ambiente naturale, che tanto ricorda Thoureau. Si tratta di una compenetrazione profonda che è presente sin dall’inizio anche in Shells, quando Arnolds cita Whitman di Song to Myself, «To be in any form, what is that?», e di seguito Feuerbach, che assimila l’identià dell’uomo al cibo che mangia. Esattamente il proteiforme e l’organico dell’uomo e del cibo sono le due cifre più sensibili di Shells: è lì che si incontrano i gusci e i corpi delle persone; è lì che si rivelano scheletro e sostanza dei rapporti umani. Non voglio fare un’analisi, ma dirvi quasi ingenuamente che sono poesie molto belle, con un carattere di storia vera, senza filtri, da sembrare «raccontate». Immaginate di dire a un amico di un fatto, magari a proposito di un altro amico, di quello che è successo, ma come non lo sai? Vi faccio un esempio, che poi è anche uno dei miei testi preferiti: «Una chiamata improvvisa, per farmi sapere che una nostra cara amica / passati sette anni ha mollato il suo ragazzo / E perché? Perché lui l’ha picchiata. Più di una volta? Dice: sin dall’inizio, da quando uscivano insieme / Ma lei non ha mai fiatato… Forse aveva paura / di quello che avremmo pensato. Forse pensava che lui si sarebbe fermato. / Io, per me, mi aspetto sempre il peggio da tutti – scommetto / che a letto dovevano fare scintille. Scommetto che lui sapeva usar bene la lingua». Si tratta di un testo intitolato The Power Grip, che qui potrebbe esser reso con La presa del potere, anche se io tradurrei Presa completa: una tecnica per dare piacere che consiste nel mettere il mignolo nell’ano, anulare, medio e indice nella vagina, lasciando il pollice fuori a strofinare il clitoride. È vero, ha ragione Simonelli, è potentissimo, come lo sono soltanto le cose vere. C’è solo un problema: Arnolds non è tradotto in italiano e a stento si trova nel nostro paese. Ecco una cosa che invece non vorrei accomunasse Arnolds a Carnevali: che ci sono voluti ottanta anni per avere una prima versione italiana di The Hurried Man…  

martedì 4 giugno 2013

Black Hole Sun


Black Hole Sun
Angelo Crazyone - Simone Fazio
Francesca Galliani - Leonardo Massi

Era il 1994 ed usciva Black Hole Sun, chi allora aveva un'età compresa tra i 13 ed i 20 anni, impazziva per questa canzone. Erano gli  anni Novanta e  gli adolescenti  di allora si lasciavano cullare dalle note distorte della musica grunge. Black hole sun  - Won't you come - And wash away the rain, Sole buco nero, vuoi venire a lavare via questa pioggia?. Questo cantavano i Soundgarden, gruppo di Seattle, dalle sonorità forti e dai testi abbastanza arrabbiati. La prima metà degli anni Novanta sono passati alla storia come gli anni del Grunge, (sgangherato), sono gli anni dei Nirvana, dei Pearl Jam, degli Smashing Pumpkins. Il successo breve ma fulminante di questo genere musicale e dei suoi gruppi, crea nel giro di pochi anni, un vero e proprio modo di essere: capelli lunghi, camice di flanella a quadrettoni, scarponi malmessi, una rabbia latente e costante, un disagio diffuso per tutto ciò che era definito pop.
Ma la mostra Black Hole Sun, non vuole celebrare il Grunge e nemmeno ricordarlo: ad accomunare gli artisti: Leonardo Massi, Simone Fazio, Angelo Crazyone, e Francesca Galliani, è l' aver vissuto ed attraversato i loro anni adolescenziali nella cultura Grunge.
In quelle sonorità ed  in quel clima  sono cresciuti ed hanno mosso i loro primi passi nel mondo dell’arte. Le loro opere evocano quelle rabbie, quelle riflessioni quelle atmosfere.
Sono passati quasi vent’anni e spesso è proprio il tempo a dare un senso ai fenomeni, ai fatti, alle epoche. E’ il tempo a stabilire valori, a farci dimenticare le cose superficiali o creare idoli, a mettere sotto una luce diversa ciò che prima sembrava altro. In realtà il Grunge è un fenomeno musicale che non è mai esistito, nacque dalla necessità di quella generazione di definire un' epoca attraverso i suoi nuovi eroi, perché quella generazione ancora aveva bisogno di icone, di punti di riferimento.
La generazione Grunge, era tutto ed il contrario di tutto, profondamente americana eppure ne contestava tenacemente le dinamiche, rivoluzionaria seppur nichilista, arrabbiata e depressa allo stesso tempo.
Era la generazione orfana dei glitterati anni Ottanta, la prima che viveva il crollo economico, una generazione abbandonata a se stessa, eppure con una forza per ricostruirsi ed inventarsi, anzi cosciente che avrebbe dovuto impegnarsi per rinascere dalle sue stesse ceneri.
Il Grunge fu un modo di essere, più che un genere musicale o un movimento, fu la testimonianza di una generazione che stava cambiando, che voleva cambiare.
La mostra Black Hole Sun, racconta quelle atmosfere, attraverso i personali linguaggi degli artisti, che provengono da diverse regioni italiani, ognuno con il suo passato, la sua storia, la sua poetica, eppure tutti accomunati da un passato denso di cultura Grunge.
L’impegno politico, la sua rabbia e le sue contraddizioni rivivono nelle opere di Leonardo Massi; i colori e le distorsioni delle chitarre, riverberano nelle tele di Simone Fazio, mentre le note più graffianti nelle fotografie di Francesca Galliani;  il bisogno ribelle e spesso intransigente, tipici di quegli anni e l'impulsività nella necessità di dialogo col mondo sono le caratteristiche delle opere di Crazyone.
Le opere in un preciso percorso espositivo, ci ricordano quel latente pessimismo e quella carica di rabbia, che ha caratterizzato gli adolescenti degli anni Novanta.

Valeria Pardini