sabato 18 maggio 2013

In Vinile di Sergio Pardini



La “prima e l’ultima” dei Beatles

LOVE ME DO,
è, secondo la storia, la prima canzone scritta da Paul Mc Cartney, nel 1958, in un giorno che aveva marinato a scuola, ma non riuscendo a completarla chiese aiuto al suo amico John Lennon, che, forse, anzi sicuramente, ha contribuito per la parte middle eight -Someone to love,.Somebody new Someone to love, Someone like you ( middle eight : 8 battute a metà delle canzoni che non si ripete più a differenze di strofe e ritornelli). Il testo è abbastanza, se non molto, superficiale:
Amami
Ama, amami.
Sai che ti amo
Sarò sempre sincero
Allora per favore, amami.
Whoa, amami.
Ama, amami.
Sai che ti amo
Sarò sempre sincero
Allora per favore, amami.
Whoa, amami.
Qualcuno da amare
Qualcuno di nuovo.
Qualcuno da amare
Qualcuno come te…….
si ripete uguale le prime due strofe
Così come la musica orecchiabilissima ma molto semplice ( in pratica due soli accordi). Da notare solo l’armonica di John Lennon.
Acerba se paragonata alle successive produzioni dei quattro, risultava però da notare in uno scenario pop stantio da tempo e preannunciava l’esplosione vitale del gruppo.
Love me do fu il primo brano da loro composto inciso dai Beatles: (giugno-settembre 1962) nello studio 3 di Abbey Road, ne uscì un 45 giri con lato B: P.S. I love you.
Furono incise due versioni, perché secondo Ken Townsend (responsabile artistico della EMI) Ringo Starr non era riuscito a sincronizzare a perfezione la cassa con il basso, valutazione tecnica tipica di quegli anni dove vigeva una specie di triste perfezionismo, poi superata in seguito imponendosi uno stile più libero come quello sia di Starr che di Charlie Watts dei Rolling Stones e poi di numerosi altri, la seconda versione vedeva alla batteria un professionista, Andy White, che faceva parte dello staff della Emi, e Ringo si limitò a suonare “mestamente” una serie di cembali. An che in P.S I love you alla batteria c’è White.
Nella sua semplicità è molto accattivante, e già faceva distinguere nettamente i Beatles da ogni altra proposta della scena musicale non solo inglese.

I ME MINE,
l’ultima canzone che i Beatles registrarono (tra gennaio e aprile 1970),
Fa Parte dell’album Let it be
Io me.mio
Per tutto il giorno
Io me mio, io me mio, io me mio
Per tutta la notte
Io me mio, io me mio, io me mio
Ora hanno paura di lasciarlo
Tutti lo usano
Facendosi forti per tutto il tempo
Per tutto il giorno
Io me mio
Io me-me mio, io me-me mio
Io me-me mio, io me-me mio 
Tutto ciò che ascolto
Io me mio, io me mio, io me mio
Persino quelle lacrime
Io me mio, io me mio, io me mio
Nessuno ha paura di farlo
Tutti lo dicono
Scorrendo più liberamente del vino
Per tutto il giorno
Io me mio ecc.
Il testo dal pessimismo riconoscibile di Harrison è accompagnato da un walzer in minore (quasi alla francese) contrapposto ad forte shuffle blues in maggiore . Il gruppo era già praticamente sciolto anche se non ufficialmente, la registrazione fu abbastanza, svogliata, obblighi contrattuali da rispettare per il film Let It Be - Un giorno con i Beatles, che quasi li costrinse a tornare in sala d'incisione.. (senza John Lennon forse già negli Stati Uniti, o come altri dicono in vacanza in Danimarca) Il pezzo registrato fu di soli un minuto e trentaquattro secondi, poi ci mise mano Phil Spector e in poco tempo ne raddoppiò la lunghezza, copiando la prima parte e aggiungendola nel finale, il 10 aprile 1970, subito dopo che Spector ebbe ancora cercato di migliorare la scarna registrazione sovraincidendo al brano un’orchestra di oltre trenta elementi, Paul Mc Cartney annunciava che i Beatles non esistevano più.
Fa una certa tristezza pensare a quanto ci sia di così diverso in queste due incisioni . Quando eseguivano Love Me Do i Beatles si percepisce l’esaltazione e l’entusiasmo, direi quasi anche l’impazienza di incidere un proprio pezzo. La realizzazione di I Me Mine è invece un attività puramente lavorativa, un obbligo, assolto con relativa anche se sempre grande professionalità. 

domenica 5 maggio 2013

Ciro Vittorio Formisano.




...Non si può aver girato mezzo mondo e non aver visto la cattedrale di Trani o le Cascate della Marmone... 
Tutto inizia così.

Il Laos ed il Salento, il Prosecco e i Cotton fiocchi, la cultura artistica e gli amori, la politica ed i fumetti, le donne che fanno troppa pipì e le partenze, il lavoro quotidiano e le fughe dalla routine, un elettricista che arriva ed una morettiana vespa rossa, le telefonate delle mamme e la festa del papà...
Questo è l'incontro con Ciro Vittorio Formisano, esattamente il 19 marzo, Festa del papà per l'appunto. Un vortice di parole, concetti, risate, dove tutto si mescola e tutto viene rimesso in gioco, come in una partita a carte.
La sua arte è vulcanica come lo è lui, ed il suo studio è un set fotografico, dove chi vi capita prende parte ad una sua opera, volenti o nolenti.
Perchè Formisano, non si può racchiudere in una definizione, è un artista concettuale ma anche figurativo, l'impegno politico è costante nelle sue opere così come una sottile e sarcastica ironia.
Sa essere cupo, per poi stupirti un attimo dopo con tele colorate e assemblaggi dadaisti.
Ti parla di cose serissime con voce profonda e poi rischiara subito il tutto, con una gioiosa e fragorosa risata. Ok, lo ammetto non so definire l'arte di Formisano, ma forse nemmeno mi va di chiudere tutto questo mondo in un unica sterile conclusione, così come penso di non aver terminato nemmeno uno dei mille discorsi che abbiamo iniziato quel giorno.
Incontrare Formisano è incontrare la sua arte. E' come salire su un treno, poi scendere al volo e prenderne un altro, magari già in corsa, non sapere dove andare eppure essere sereni e tremendamente curiosi di sapere quale sarà la prossima fermata, magari scendere in una stazione che non conosci, risalire su un nuovo treno e così via ….



Valeria: Chi è in cerca di “ artista con esperienza possibilmente già famoso”
Ciro Vittorio Formisano: Spesso le mie opere sono la riformulazione dall’osservazione della realtà. Quell’opera nasce da “cercasi commessa con esperienza” ho riformulato quel cartello che si vedeva fuori dai negozi in “cercasi artista con esperienza, possibilmente già famoso”, questo perché per un artista che vuole iniziare si trova di fronte persone che vorrebbero la pappa bell’è pronta.


Valeria: Quanto e soprattutto con chi è arrabbiato Ciro Vittorio Formisano?

Formisano: Qualche anno fa ero molto più impulsivo, ora sono consapevole che il mondo è sregolato e irreversibile, mi vivo la mia vita, quello che accade intorno non mi innervosisce più di tanto, “il tempo è lungo e il vero avviene”.


croce nere morti bianche. Istallazione

Valeria: In questo monento storico, non proprio facilissimo, secondo te dove sta andando la cultura artistica nel nostro paese?
Formisano: Mi viene di pensare al fermento artistico degli anni del dopoguerra, alla scuola romana, all’arte povera, oggi è tutto più confuso. Credo che questo momento storico non facilissimo, farà grande selezione e produrrà grandi sofferenze, quindi su tutta questa merda attecchiranno fiori profumatissimi, batteri e vermi.

Valeria: C'è un posto nel mondo al quale sei particolarmente legato? Pensi che l’ambiente possa influenzare la creatività?

Formisano: Cesare Pavese la chiama la terra del mito, è il posto dove nasci, io sono nato a Torre del Greco (Na), è quello il posto nel mondo al quale sono legato, il golfo di Napoli. Innumerevoli aspetti influenzano la creatività, nelle grandi città accadono più cose, il confronto e la competizione sono quotidiane, ma anche la solitudine è necessaria, la formazione. Io sto bene sotto il crinale Apuano, qui ho trovato la maestosità anarchica delle vette e gli spazi sconfinati del mare, ho riconosciuto la bellezza e mi ci sono fermato, per adesso.

130x200 dalla serie Molteplice, olio su tela.
Valeria: É così bella la cattedrale di Trani? Scherzi a parte, quanto conta conoscere l'arte del passato?
Formisano: Di più, è meravigliosa, a pochi metri dal mare sembra una nave pronta a esser varata. Quando sono entrato con Anastasia nella cripta di San Nicola ci siamo seduti e abbiamo pregato. Il passato determina il nostro presente conoscerlo è la conditio sine qua non per superarlo. 


Valeria: La mostra perfetta sarebbe...

Formisano: di un artista sconosciutissimo in un contenitore famosissimo.


Valeria: si può fare arte con tutto, o esiste un limite verso qualcosa?
Formisano: Il limite esiste ed è quello nei confronti della vita.


la tua ricchezza è nelle tue idee. ventisette targhe,
le ventisette lingue delle Comunità Europea

Valeria: L'Arte contemporanea è influenzata da molte figure: curatori, critici, galleristi, collezionisti. Chi è per te il critico d'arte?
Formisano: La risposta è semplice, è un intenditore, un tecnico. Le figure sopraelencate non esisterebbero se non esistessero gli artisti e troppo spesso prendono il sopravvento.


Valeria: Sei mai stato stroncato dalla critica d’arte? Secondo te sono così influenti le recensioni?

Formisano: No non lo sono mai stato perché la critica d’arte nemmeno mi conosce. Possono servire sempre che siano gratuite.


Valeria: Tre parole, Meritocrazia, Concetto e... 
Formisano: Competizione.


Cedesi Attività. Mialno 2012. Azione Ambientale.

Valeria: Mi racconti come nasce “Cedesi Attività”.
Formisano: Il volano sul quale ruota il mio lavoro è l’uomo in principal modo gli ultimi i diseredati le vittime della storia del lavoro. L’azione “Cedesi Attività” quando la proposi tutti storsero il naso, allora me la sono fatta da solo prima di inaugurare la personale Egoico presso la Galleria Dream Factory di Milano nel 2012. Cercavo di cedere l’attività di venditore di ombrelli, un modo ironico per evidenziare un lavoro e volerlo cedere ad un italiano interessato. Ora sto pensando alla versione estiva dell’azione.


Valeria: C'è un'opera del passato in cui ti identifichi maggiormente?

Formisano: ti racconto una storia: nel 1937 circa 74 velivoli tedeschi 73 italiani e 16 spagnoli bombardarono tra marzo e aprile le città di Durango e Guernica. Picasso dipinse Guernica fra maggio e giugno e Guernica non torno in Patria fin quando la Spagna non torno un paese democratico. Accadde dopo 44 anni e fu una festa per tutta la Spagna. impensabile che nello stesso anno Stalin creava l’operazione 00447 a cui ho dedicato decine di quadri, e a Nanchino capitale della Cina i giapponesi trucidavano 500000 civili. facendo arte civile Guernica è l’opera delle opere.


Toporiccio 2011

Valeria: Non ci sono troppi artisti secondo te?

Formisano è come dire che in un prato ci sono troppi trifogli, c’è spazio per tutti, certo si sta un po’ stretti, ma possiamo stare anche in piedi.

Valeria: Ma le donne fanno davvero così tanta pipì?
Formisano: ebbene si, mica è un difetto, quando ero giovane in discoteca mi garbava più il bagno delle donne che quello degli uomini.

Compro sogni al miglior prezzo. Istallazione. 










Ciro Vittorio Formisano, 
quando non è in viaggio,
vive e lavora a Massa.


sabato 4 maggio 2013

Librazioni, maggio di Diego Bertelli




C’è una parola ne I mondi di Guido Mazzoni (Roma: Donzelli 2010, pp. 66) che non riesce a passare inosservata; si tratta di «monadi». Non solo per l’implicito richiamo a Leibniz, il sostenitore del «migliore dei mondi possibili», ma perché monadi, usata al plurale, sembra un’estensione del titolo, una sua correzione di senso. «Sostanza semplice che entra nei composti», secondo la definizione dello stesso Leibniz, la monade è la condizione del molteplice che si rivela attraverso la singolarità degli elementi; erede dell’atomo democriteo, essa appare sin dal primo componimento de I mondi e proprio con l’atomo si lega: «Ricordo sempre più spesso gli atomi compiuti / la vita presso di sé / così perfetta nelle monadi» (Questo sogno, p. 13). È dunque la dimensione del ricordo quella che caratterizza I mondi; ricordo preso nel suo numero singolare, il cui monadico nitore riconduce lo sguardo indietro nel tempo; a brillare è allora la questione di una sua purezza possibile, perché I mondi sono anche questo: i «puri» momenti di una vita che appare spesso ingiusta nel suo svolgimento, così come lo è ogni discorso sul passato.
Sin dalle citazioni in esergo, Mazzoni sa che ricordare richiede attenzione: da una parte, bisogna, secondo la prospettiva di Kafka, «vedersi come una cosa estranea, dimenticare quello che si vede, mantenere lo sguardo», poiché il cuore, quando è «messo a nudo», subisce sempre contaminazioni continue. Dall’altra, è necessario tenere a mente il fatto che «vivere e essere ingiusti sono una cosa sola». Specie questo secondo memento nietzscheano, tratto dal saggio Sull’utilità e il danno della storia per la vita, è però soggetto a una correzione: laddove il filosofo tedesco afferma la necessità di far violenza al passato, traendolo «innanzi a un tribunale, interrogandolo minuziosamente e alla fine condannandolo», poiché «ci vuole molta forza per poter vivere e poter dimenticare», Mazzoni sostituisce il senso critico per mondare il passato. È pur sempre un «processo» quello che avviene, sebbene indotto e non dogmatico, come nel caso di K. Mazzoni «procede» compiendo stazioni, che sono non a caso anche stagioni della vita; a volte assumono la forma di tappe e passaggi, estensioni (Prato Est, Parcheggio, Luxembourg, Rogoredo, AZ 626, Rettilineo Dearborn Bridge), di spazi ben oltre il dominio della dimensione (Questo sogno, Il cielo, La forma del ricordo, Territori, Superficie, Gli esseri), di tempi interni ed esterni (Quando si smette di cercare, Gli anni, Bambino, L’istante che è appena trascorso, Generazioni).
Di questo percorso è specialmente il trauma a fornire la forma più compiuta del descensus ad inferos: «E ripensare all’odore di asfalto, / all’azzurro tra i colori, essendo luglio, avendo / io la schiena in terra e gli occhi verso l’alto / perché ora mi vedo. Metteranno / delle sonde dentro di me, un catetere quando mi sveglio» (La scomparsa del respiro dopo la caduta, p. 22). L’esperienza concreta è quella di un incidente stradale; il conivolgimento del corpo e della prima persona permette un affondo ancor più concreto nel tempo, in cose non ancora mondate, non ancora ricordotte a un’idea di purezza, nel migliore dei mondi che si possa sperare di avverare in un vita tutt’altra che giusta, in esperienze essenziali ma che vanno «secondo le statistiche», che sono, nel rapporto tra io e altro, il loro contrario: «nessuna esperienza ci unisce, noi stessi siamo questa dispersione (Esperienza, pp. 22-23)».
Necessario è allora trovare fisicamente il «momento». È nella prosa che porta il titolo della raccolta che si coglie in modo decisivo come il percorso del soggetto renda «mondo» la propria dimensione individuale: l’appartamento in cui si trova, vissuto come Terra, dove avviene la sua rivoluzione: «Era un istante di assoluto straniamento e io cercavo di prolungarlo, perché ciò che accadeva, ciò che pensavo, quella specie di navigazione in un’estranietà che non diventava parte della mia vita, fra oggetti presi in affitto che non portavano alcun segno di me, prendesse una patina nuova – e per un attimo, nello stupore di chi riconosce ciò che ha sempre saputo, ogni cosa […] diventasse nitida e leggibile» (I mondi, p. 45). Si tratta, appunto, del «momento», sia fisico sia temporale, ma che resta fine a se stesso: «Ma capivo anche la profonda irrelatà di quella comprensione momentanea, la gratuità di quell’attimo di straniamento, così fragile in rapporto alle forze primarie, banali […]. Chiuso nel proprio territorio, ogni organismo appaga la forza che lo fa essere e modifica, per quanto può, questo piccolo intero dove ogni azione ha un significato solo locale e solo simbolico, e dove tutto tende al proprio equilibrio senza alcun disegno, senza alcuna giustificazione. Esiste solo questo» (I mondi, p. 46).
È l’azione cieca e costante delle cose, la casualità meccanicistica entro cui la biologia umana resta oggetto e non soggetto, a segnare il turning point gnoseologico, marcatamente rensiano, dell’autore. Senza concedere più nulla alla prospettiva leibniziana presupposta inizialmente, Mazzoni la scardina anzi dall’interno, rendendo materia le monadi-mondi, facendole tendere al minimo stato di energia e al massimo stato di caos. A questa constatazione decisiva sul piano di una comprensione da intendere come arresa di fronte a un’acquisizione, segue il percorso cominciato in precedenza. Non è che il ricordo abbia subito per questo una nuova prospettiva: «vedo diversamente / le monadi» (AZ 626, p. 56) è allora vedere in modo «separato», in senso pressoché montaliano. E seppure «[…] non c’è un senso ma un infinito adattamento» (Dearborn Bridge, p. 58), la forza di questa poesia sta proprio nel non arrendersi a un’illusione, ai modi in cui si compie la vita, in cui essa si rigenera in mezzo alle cose, come le cose stesse: «Guardo il neonato, fra le bottiglie e i bicchieri, cominciare a esistere» (Generazioni, p. 62).
La rivelazione, ciò che apre e che chiude, è la certezza che almeno l’ingiustizia di questa vita non sia stata compiuta volontariamente, che a nessuno sia imputabile come reato, che non ci renda colpevoli; la rivelazione riguarda il mondo nella misura in cui, se non è certo il migliore per definizione, lo sia per una questione di forze ed equilibri necessari. Così ogni giorno può essere puro, o come dice Mazzoni, Pure morning, il testo conclusivo della racconta, che richiama un brano dei Placebo (e che forse al nome del gruppo si riaggancia per il riconosciuto effetto di cura artificiale attribuito a questo pesudofarmaco). I mondi, dunque, i puri, nella loro pur incontrollabile contaminazione; «Day’s dawning / skins crawling / pure morning». È qui che il dolore e la purezza coincidono, che l’indifferenza rende identici tutti, la solitudine, vicini: «A friend in need’s a friend indeed».